Per raccontarvi la storia di Giacinto Facchetti non vogliamo limitarci a elencare presenze gol e vittorie, e chi meglio di lui può fare questo, nel 1987 Giacinto Facchetti per una pubblicazione sulla storia dell’Inter si raccontava così:
Dal 21 maggio del ’61 al 7 maggio del ’78 ho passato gli anni più intensi della mia gioventù, anche perché sono stati gli anni in nerazzurro. Tutti. Un altro periodo meraviglioso lo sto vivendo adesso.
Il presidente Pellegrini mi ha dato modo di essere di nuovo utile all’Inter, in una veste diversa: ambasciatore nerazzurro e consulente, mettendo a disposizione della società le mie esperienze.
Non potete negare ad uno che all’Inter ha voluto andarci da ragazzino, e che da allora era al punto di chiudere con il calcio se non l’avessero accontentato, di considerare i colori neri ed azzurri come una parte importantissima della propria vita.
Lo sapete, sono nato a Treviglio il 18 luglio del ’42. Eravamo in sette in famiglia, due fratelli, tre sorelle, mamma Elvira e mio padre, Felice. Lavorava in ferrovia, ha giocato a calcio con discreto successo. Da terzino, ed era anche piuttosto deciso. Chissà che sia stato questo ruolo a condizionare il mio. Ho iniziato nel calcio in una squadretta a Treviglio, ovviamente quella dell’oratorio: U.S. Zanconti. Poi nella Trevigliese, dopo non aver avuto il benestare da mio padre e dal parroco per andare all’Atalanta perché mi ritenevano troppo giovane. Una chiamata di Giuseppe Meazza, l’uomo che mi ha fatto capire per primo lo spirito dell’Inter, mi portò a giocare a Ginevra con i ragazzi nerazzurri. Per me fu come un colpo di fulmine. Ma non avevo nessuna certezza. Anzi, si rifece sotto l’Atalanta e tutti mi dicevano: “Ormai è deciso, vai a giocare a Bergamo”. Fu allora che mi impuntai: “O l’Inter o non gioco più”.
La svolta della vita. Due stagioni nei “ragazzi”, la prima con Meazza allenatore, la seconda con Maino Neri tecnico ed ancora Meazza supervisore. Il terzo anno cominciò a guardarmi con simpatia Helenio Herrera che mi portò agli allenamenti con la prima squadra. Cominciava la seconda svolta. Adesso cerco di spiegarvi cos’era il calcio per i ragazzi di allora. Non vedevamo le partite, se non quelle delle squadre del paese. Non c’era da vedere tutto il calcio in tv che si vede adesso. Spezzoni di partite li vedevamo al cinema dell’oratorio, nei cortometraggi della “Settimana Incom”: una specie di cine-giornale che veniva proiettato tra un film e l’altro. Io l’Inter l’ho amata standoci dentro, sentendo il calore che sprigionava la società, vivendo le giornate ginevrine con la squadra dei giovani. Il mio amore nerazzurro è nato così, senza che ancora fossero arrivati i grandi trionfi internazionali dei quali – per mia grande fortuna – sono stato anche protagonista.
Ricordo dei particolari che ancora mi commuovono dei primi anni in nerazzurro. La prima volta a San Siro, ad esempio, in una squadra juniores in avanspettacolo ad una amichevole di lusso, Italia-Brasile. Stadio già pieno, quei muri di gente mi emozionarono e mi stordirono al punto che non capivo più da che parte eravamo entrati sul terreno, e non trovavo più il “buco” per rientrare negli spogliatoi. Ed ancora un episodio. La simpatia che mi ha dimostrato Valentin Angelillo. Io ero ancora nelle riserve, lui ci era finito a causa di un momento difficile. Succede a tutti, anche ai grandi campioni. Valentin mi aspettava spesso alla stazione, dove arrivavo io da Treviglio per andare agli allenamenti. Raggiungevamo insieme il “posto di lavoro”. Mi raccontava le sue esperienze, mi incoraggiava. Io solo per il fatto di stare al suo fianco, di vedermi considerato,
mi sentivo come in paradiso.
Agli inizi della stagione ’60-61, proprio in occasione di una partita delle riserve, ricordo ancora con emozione una frase di Helenio Herrera :”Continua così, ad allenarti con impegno. Diventerai un campione a livello internazionale”. Quasi non ci credevo. Invece ci pensava per davvero, tanto che il 21 maggio del ’61 mi inserì in prima squadra. Che emozione. Si giocava sul campo della Roma, mi toccò di controllare l’uruguaiano Alcide Ghiggia. Era un attaccante veloce, esperto, sornione, capace di cento trucchi nel dribbling, anche se debbo ammettere che a quei tempi aveva già dato il meglio e cominciava ad accusare il peso della lunga carriera. Non andò male, cercai di non farmi sorprendere dalle sue finte guardando soprattutto il pallone. Vincemmo 2-0 . la domenica dopo fui riconfermato in squadra contro il Napoli. Una specie di consacrazione ufficiale. Mi sentivo un leone, ma capivo anche che avevo ancora molto da imparare. Fu la mia fortuna. Dico ai giovani calciatori di oggi che bisogna avare orgoglio e coraggio, ma anche molta modestia. Chi si crede arrivato troppo presto, ai primi successi, è destinato a sprecare tutto,
spesso a fallire.
Nella prima squadra dell’Inter sono entrato piano piano, ma per non uscirne più sino a fine della carriera. Negli anni di Herrera ho compiuto progressi, ho migliorato la tecnica, ho fatto grosse esperienze in fatto di tattica di gioco, ma sempre seguendo un istinto preciso. Già nella Trevigliese ero un difensore che amava portarsi all’attacco, ma non capivo come si potesse stare tutta la partita in fondo alla squadra, a calciare lungo il pallone. Lanciai la moda, lo dico senza presunzione, del terzino che avanza, che va a cercare il gol. La mia predisposizione veniva messa al servizio del gioco della squadra. Lo prevedeva il nostro schema. Andavo avanti, e talvolta segnavo: 59 gol, tutti su azione. Ci fu un giornalista famoso, Gianni Brera, che ad un certo punto sostenne che avrei dovuto giocare come centravanti. Magari una esagerazione, perché è più facile arrivare al tiro di sorpresa, partendo dalle retrovie, ma era un segno di stima che mi inorgogliva, pur senza farmi perdere di vista la realtà. Ma debbo ammettere che un pensierino al Giacinto Facchetti attaccante di ruolo l’ho fatto per davvero. Specialmente quando mi accorsi che ero persino più alto di John Charles.
Sono stato un giocatore deciso, senza autorità in campo non si può primeggiare, ma anche corretto. Lo hanno riconosciuto in molti dei miei avversari diretti. In tutta la carriera sono stato espulso una volta sola, dall’arbitro Vannucchi, anche se il nostro era un football duro, forse più duro di quello di oggi. Helenio Herrera era un grande lottatore, un uomo per il quale ogni successo non era un punto di arrivo, ma una base di partenza. Mi arrabbiavo con lui, dentro di me, solo quando seguendo una sua teoria sul rapporto alimentazione-sport ci teneva a stecchetto a tavola, e noi essendo giovani avevamo un grande appetito.
In Nazionale ho giocato, grazie all’Inter, 94 partite. Solo 3 i gol, in azzurro dovevo stare più attento alle consegne difensive, avevo minori possibilità di gettarmi in avanti. Ho partecipato a tre campionati del mondo, ho dato una mano per le qualificazioni al quarto, quello in Argentina. Non ci andai, quasi alla vigilia lasciai il posto all’emergente Cabrini. Debbo dire che consegnai la maglia numero 3 in buone mani. Sempre dispiace dover mollare, ma l’importante è arrivare a staccare con la coscienza di aver fatto il proprio dovere. Io credo di averlo fatto, anche se non sono stato il solo. Specialmente nell’Inter, che negli ani ha sempre saputo catturare i giocatori con la signorilità, con il suo modo di trattare. Al di là del rapporto economico, sempre uno stile perfetto. Anche adesso è così. Per questo essere nerazzurri è un traguardo, un segno di eccellenza.
Una grande emozione, il 27 maggio ’64, il giorno della nostra prima vittoria in Coppa Campioni. Due gol di Sandrino Mazzola ed uno di Dilani, 3-1 al grande e mitico Real Madrid. Avevo 22 anni, mi pareva di toccare il cielo con un dito. Credevo di essere sulla luna, invece era il primo di tanti successi in maglia nerazzurra. Quando avevo esordito, mi sentivo come un pesce fuor d’acqua in mezzo a tanti campioni. Bolchi, Picchi, Guarneri, Balleri, c’erano tanti elementi esperti fra i difesa e mediana. Invece ho resistito, sino a diventare capitano. Quella fascia sul braccio, anche in Nazionale, mi responsabilizzava, mi faceva ancora più attento, non potevo sgarrare, cercavo di dare un esempio in campo. Mi auguro di aver svolto bene la parte, e magari di aver insegnato qualcosa ai giovani.
Giocare a calcio è un mestiere bellissimo, anche redditizio, ma da interpretare con la massima serietà. Se non si è seri si tradisce se stessi, la società, i tifosi che sono gli amici più fedeli. Avrei voluto abbracciarli tutti, i nostri fedelissimi. Lo faccio adesso, con l’occasione di scrivere queste righe. Vogliate bene all’Inter. Anche nei momenti difficili (logico ce ne siano nella storia di una società come l’Inter che proprio per la sua fama sollecita al massimo gli avversari) i colori nerazzurri si sono sempre battuti con il massimo della serietà e dell’impegno. Come adesso, insomma.
Ora che ho scordato l’inevitabile amarezza dell’abbandono del calcio attivo, capisco ancora meglio il lavoro che la società sta portando avanti. Un lavoro difficile. La concorrenza, i costi di gestione, le difficoltà della campagna acquisti e cessioni. Tutto da valutare con precisione. L’Inter ha molto rispetto dei suoi tifosi, anche perché sa che sono critici severi. E chiede loro di essere sportivi. Il calcio d’oggi vive sotto il rischio sottile della violenza dentro ed attorno agli stadi. I colori nerazzurri debbono stare fuori da ogni tensione che non sia quella agonistica, del campo. Vi chiedo di urlare “forza Inter” con passione, ma senza rabbia. Come faccio io, che le cose le ho viste dall’interno. Forza Inter, sempre, e che la lunga storia raccolta nelle pagine che cominciano adesso vi convinca ancora di più – semmai fosse necessario – per quale gloriosa società state gridando il nostro entusiasmo.
Giacinto Facchetti
Conclusa la carriera da calciatore, Facchetti intraprende quella da dirigente. Sempre e comunque al fianco dell’Inter, società per la quale ricopre diverse cariche: da vice-presidente a “ambasciatore” nel mondo, da membro del Consiglio d’Amministrazione a direttore tecnico. Il 30 gennaio 2004 Massimo Moratti gli lascia la massima carica: Facchetti è il primo calciatore della storia nerazzurra a essere nominato Presidente, il 19°. Sotto la sua gestione l’Inter vince uno scudetto, due edizioni della Coppa Italia e due della Supercoppa Italiana. Da sempre considerato un calciatore simbolo del calcio mondiale, ricopriva diverse cariche istituzionali anche in Fifa e Uefa insieme con i grandi campioni che hanno scritto la storia dello sport.